Di seguito potete leggere e valutare i racconti dei nostri amici anobiani.
I° Punto: Romantico e/o malinconico
II° Punto: Umorista e/o parossistico, esagerato
Potete votare e commentare a questo indirizzo:
http://www.doodle.com/qvyfbszihvu6u2fh
Dal 7 gennaio pubblicherò la classifica, il vincitore e tutti i vostri commenti. Da quel momento discuteremmo sulle vostre impressioni.
Buona lettura e… buon voto a tutti
II° Punto:
"Lo Schiaffo"
Una scocciatura quelle ultime ore di lezione a scuola; mezzo giorno e mezzo, tutti stufi, i ragazzini variamente affamati, quando poi ti capita all’ultimo minuto la supplenza per sostituire un collega assente, proprio l’ultima ora, una doppia scocciatura.
Ma io lo sapevo già dal giorno prima che l’avrei avuta quell'ora, mi avevano avvisata e in un certo senso mi ci preparavo. Il fatto è che me ne preoccupavo un po’: di quella classe lì si sentiva parlare in sala insegnanti, nei corridoi, o piuttosto, di quel caso lì.
Un ragazzo difficile, spesso assistito da un insegnante particolare per lui, un bambino collerico, attaccabrighe, che metteva le insegnanti in situazioni delicatissime da gestire, in bilico tra il contenimento fisico della sua rabbia e il tentativo di non escluderlo dalla lezione, insomma, roba da specialisti.
Noi li chiamiamo “ragazzi disturbati”, ci sta di tutto dentro: caratteriali, autistici, violenti o dolcissimi, anch’io nel corso della carriera ne ho avuto in classe, diverse volte, me la sono sempre cavata piuttosto bene con loro, ero alquanto fiera del mio modo di lavorare, fino a quella volta.
Entrai dunque in classe, l’aula era di fronte alla presidenza, proprio per sorveglianza speciale. Il mio timore era di trovarmi coinvolta in una di quelle scene che avevo sentito raccontare dalle colleghe: il ragazzino, infuriato, che fa a botte con i compagni. Questo no, non lo volevo.
Perciò mi misi d’impegno a fare lezione con la classe, seguendo un ragionamento stupido, ora lo so, lo avessi saputo prima… Ragionamento: se lavoro bene con la classe, tengo tutti impegnati, non può succedere nulla, il ragazzino rimarrà fuori dalla situazione, non interagisce, se ne sta tranquillo.
Errato. Anzi, esattamente il contrario di quel che andava fatto; avrei dovuto badare a lui, lasciar andare la classe alle attività rumorose ma innocue che svolge quando l’insegnante dichiara, con un po’ di ipocrisia “ragazzi, fate i compiti, ripassate le lezioni, fate quel che dovete, possibilmente in silenzio”. Non sarebbe successo nulla.
Invece io faccio lezione, ignoro il “caso”. Quello che passa per la sua mente, non lo so ma posso immaginare il senso di esclusione, il desiderio di farsi sentire…
Sta di fatto che in una dinamica precipitosa che a tutt’oggi non saprei ricreare, succede il peggio che potesse succedere: il ragazzino aggredisce violentemente un compagno, per impedire il violento attacco, per separarli, per proteggere il bambino sopraffatto, io intervengo, ma non basta la mia voce, non basta la forza delle mie braccia per far mollare la presa al ragazzo in preda alla sua collera sorda; lo devo letteralmente issare da terra tirandolo per i cappelli, e fin qui va bene. Non ho fatto nulla di male.
Ma lui continua, urla, si dimena e comincia a sbattere violentemente la testa contro il muro, con un ritmo che si intensifica. Non ho il tempo di pensare “che cosa devo fare, come lo faccio, e se…” l’impulso parte dal braccio, istintivo e preciso: gli do' uno schiaffo. Nemmeno tanto forte.
Funziona, subito. Il ragazzino si zittisce, si calma. Io mi sento un poco stordita, stupita dal mio gesto, ma, in fondo giustifico: era la sola via di uscita. Però...comincia subito il lavoro: non avrei potuto fare diversamente? Dove mai si è visto che bisogna schiaffeggiare i ragazzini per calmarli? Dove ho sbagliato?
La misura dell’errore, della colpa, mi verrà data in seguito. A più voci mi verrà detta: hai sbagliato, non sei stata all’altezza, vergognati. Nella voce di quelli che, subito, mi rassicureranno, colleghe amichevoli “guarda che io, al posto tuo, avrei fatto la stessa cosa”, del preside, correttissimo, che mi proteggerà, nella voce dei passanti che per i mesi successivi mi saluteranno come al solito, con quella scintilla subito accesa nello sguardo “ah, quella dello schiaffo”, soprattutto nella mia voce “ecco, vedi, tu credevi di essere quella brava, quella che sa gestire, quella che non perde le staffe, ma brava…”
Forse le voci che mi hanno disturbata meno profondamente sono proprio quelle che mi aggredirono con malevolenza, da subito, riconoscibili voci della rabbia dei genitori “gliela faremo pagare”, o di quelli che aiutarono a dar forma ai demoni, “guardi che io l’ho accompagnato al pronto soccorso per il bene del bambino”.
I fatti, i fatti. Non perdiamo il filo.
Due giorni dopo, ricevo la telefonata dai genitori: lei è convocata in questura per la violenza su nostro figlio.
Ho perso tutto dentro quello schiaffo: la voglia di insegnare, di uscire di casa e incontrare gente, la mia fiducia, la mia stima e, sicuramente, quella di tanti altri, la voglia di difendermi.
Sono esplosa in mille pezzi, quella volta, anzi, non in una sola volta, bensì momento dopo momento: a colpi sordi di rimproveri: avresti potuto, avresti dovuto, sei sempre stata presuntuosa, ecco il risultato.
Ma non l’ho dato a vedere quello che succedeva dentro: ogni giorno sono andata a scuola, con quell’ombra dentro e il mio orgoglio che ergeva la barriera del sorriso, dello sguardo chiaro, della frase decisa.
Solo con lui, non potevo: il ragazzino. Fino all’ultimo giorno di scuola, non sono riuscita ad incrociare il suo sguardo; avrebbe potuto leggere dentro: la colpa, sì, ma anche il mio desiderio di fargli male, veramente male. L’ultimo giorno di scuola, l’ho fatto, l’ho guardato. Almeno questa battaglia l’ho vinta.
Le altre sono tutte in corso. Voglio cambiare mestiere. Voglio cambiare vita.
I° Punto:
“Dal diario di un ex-insegnante”
Il 9 novembre 1989 è stato il giorno più brutto della mia vita.
Ed ancora oggi io me ne ricordo con amarezza ed astio. Astio nei confronti dei miei studenti, astio nei confronti del mio preside, astio nei confronti dei bidelli, astio nei confronti di Gabriella, la mia collega di inglese, che allora era pure la mia ragazza, o meglio la mia fidanzata, o, meglio ancora, la mia fidanzata ufficiale, e lo sapevano tutti, anche se, in quei tempi lontani non c’era ancora Facebook.
Ma andiamo con ordine. Il 9 novembre 1989 cadde il muro di Berlino. Prima incredulità, poi emozione e sorpresa in tutto il mondo. In Vaticano forse no. Lì l’avranno saputo in anticipo. Ma questa è un’altra storia. Ora vi voglio raccontare la mia.
Bene. Il giorno dopo non si parlava d’altro. Sui giornali, in televisione, nelle università. Ed il mio preside, uno di quei tipi “moderni” (almeno, allora si diceva così), anticonformisti, all’avanguardia, un ex-sessantottino pentito ma non troppo, organizzò insieme agli studenti del CDI (Consiglio di Istituto, per chi non è pratico di scuola….) una assemblea in palestra. Nella MIA palestra, essendo io l’unico insegnante di Educazione Fisica di ruolo di tutta la scuola. Senza preavvertirmi. Senza consultarmi. Io avevo programmato per quella mattina un allenamento delle squadre di pallavolo maschile e femminile in vista del primo e importantissimo scontro del campionato regionale tra istituti superiori. E’ importante ricordare che l’anno precedente avevamo vinto entrambi i titoli, maschile e femminile, grazie a me ovviamente, ed i due trofei facevano bella mostra nella bacheca posta dietro la scrivania nell’ufficio del preside.
Arrivai a scuola trafelato, lasciavo la macchina in un parcheggio a circa cinquecento metri dall’ingresso, e poi facevo sempre una piccola corsa, così per abitudine ed anche per dare l’esempio ai più giovani, anche se allora ero giovane anch’io, la lunga sciarpa avvolta in tre giri al collo, il cappello di lana col pompon che tanto faceva sorridere le ragazzine, i guanti da sci, il giaccone con la scritta dello sponsor e, sotto, la tuta da ginnastica blu.
Il bidello mi bloccò sulla porta degli spogliatoi:
Sorriso ironico del vecchietto, perché per me era un vecchietto.
La palestra era stracolma. Avevano anche predisposto un piccolo palco per gli oratori: Gabriella la vidi subito, in piedi alla destra del preside con una mezza dozzina di volumi in mano, da cui spuntavano segnalibri e foglietti di appunti.
Raggiunsi i ragazzi di quinta e mi mescolai a loro.
Non vi racconterò di quella mattinata. Sarei retorico o di parte. Dico solo che verso le due, riuscii a raggiungere Gabriella, che aveva fatto una gran bella figura, leggendo alcuni passi di Brecht in tedesco e poi li aveva tradotti a braccio tra gli urli e i pochi, anzi pochissimi fischi degli studenti. Doveva essere stata sveglia tutta la notte per estrapolare i brani adatti all’occasione.
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Quello fu il mio ultimo anno scolastico. A giugno 1990 lasciai la scuola per sempre. Chiedere il trasferimento mi sarebbe sembrato umiliante. Preferii dare le dimissioni.
Dopo il giorno dell’assemblea, Gabriella mi propose di organizzare una gita scolastica a Berlino, per i ragazzi della quinta. Sarebbe stata per tutti un’esperienza straordinaria. Lei insegnava inglese, ma aveva studiato anche tedesco all’università e con la collega di lettere aveva già predisposto un programma. Da me si aspettava solo l’ok finale. Aveva già deciso tutto. Il preside, ho già detto che tipo era, non avrebbe certamente posto ostacoli. Fu forse la prima scuola in Italia, la nostra, a portare i suoi ragazzi a Berlino.
Io però a Berlino non ci andai. Mi avevano invitato ad un congresso su “Medicina sportiva: gli adolescenti e l’attività agonistica”. Dovevo fare un intervento sulla pericolosità , sia a livello fisico, sia a livello psicologico, di certe pratiche agonistiche precoci. Un mio carissimo amico medico mi aveva chiesto di affiancarlo: io, giovane insegnante di educazione fisica, potevo avere più ascendente di lui almeno sul pubblico degli studenti. Non me la sentii di rimangiare la parola data.
Quello fu il mio primo errore.
Il secondo fu di cedere ad un supplente il posto di allenatore delle squadre di pallavolo. Mi sembrava doveroso passare la mano. La squadra maschile fu eliminata al primo turno, quella femminile si ritirò prima degli ottavi, ancora oggi non so il perché. Allora alcune malelingue dissero perché il supplente allungava le mani.
Il terzo errore… ma perché parlarne, ora?
E’ stato il destino.
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Sono passati più di vent’anni da allora. Gabriella tornò da Berlino entusiasta. Mi disse, tra l’altro, che aveva conosciuto un giornalista tedesco, il quale sarebbe venuto in Italia per visitare la nostra scuola.
Venne. Visitò la nostra scuola. Gabriella lo invitò a pranzo. Lui venne. Visitò la nostra casa, anzi la mia casa. E non se ne andò più. Fui io ad andarmene. A giugno. Dissi al padrone di casa se era possibile fare un nuovo contratto d’affitto ad un altro inquilino, senza che io dovessi pagare la penale per non avere comunicato in anticipo la disdetta: fu comprensivo.
Ora vivo in due locali che ho acquistato alcuni anni fa, in un quartiere nuovo. Sono un libero professionista. Tengo corsi di ginnastica posturale per anziani in un paio di palestre e in una casa di riposo. Insegno i rudimenti del basket e della pallavolo ai bambini che frequentano l’oratorio del mio quartiere.
Gabriella non l’ho più vista. So che ha due figli e che insegna ancora. Suo marito è un free lance, collabora con diverse testate italiane e tedesche.
Io evito accuratamente di comprare quei giornali.
I° Punto:
"Occhi di nebbia"
Tra me ed il portico file e file di ragazzi ammassati, l’onda ancora non premeva, ma dai lacrimogeni sparati molto più avanti iniziava ad arrivare un fumo acre che impediva di tenere gli occhi aperti. I tamburi e le latte battevano il loro ritmo parossistico e gli slogan urlati rimbalzavano per la piazza. Un po’ mi chiedevo perché ero lì, mia madre minimo mi faceva la pelle a saperlo:
Tutto era cominciato un mese fa. Mi annoiavo a morte a scuola e sono finita al corteo per non essere interrogata di italiano.
Situazione difficile la mia, seconda di due sorelle nello stesso liceo, facevo rimpiangere a tutti quella passata per prima nella stessa sezione; tutti a fare confronti su quanto era brava mia sorella, e quanti bei voti prendeva negli scritti, e quanto era brillante nelle interrogazioni, che barba! Se avessero saputo quanto poco studiava! E’ che a me lo studio proprio non mi è entrato nelle cellule ed anche studiando più di lei i miei risultati sono sempre stati scadenti, anche alle elementari!
Eccomi quindi in fuga dal più grande nostalgico di mia sorella, che ancora mi cita le sue illuminate esternazioni ed osserva sconsolato i miei temi frettolosi.
Abbiamo fatto un lungo giro per la città, placidi e calmi come un fiume, tutti un po’ impegnati a fare i fatti nostri; la meta del corteo è la sede del Comune per far sentire un po’ la nostra voce di protesta sulla politica del governo in materia di riforma della scuola. Siamo entrati nella piazza come un fiume arriva al lago, allargandosi a riempire tutto lo spazio ed eravamo così rilassati che ci siamo accorti di loro solo quando gli eravamo già in bocca: il portico era pieno di celerini in divisa antisommossa, ma che film hanno visto? Ma ci avranno mai visto una volta in faccia, abbiamo voglia solo di armonia e di essere lasciati in pace a fare le nostre cose, che c’entra la guerra con noi?
Ma ormai eravamo lì, abbiamo anche noi il nostro orgoglio, non potevamo mica tornarcene sui nostri passi con la coda fra le gambe? E quindi avanti, che non avevamo mai provato una carica…
Col senno di poi avrei preferito non esserci, perché so che la mia vita ha preso una piega che non avrebbe avuto se fossi rimasta in classe a farmi massacrare di italiano.
La curva in cui ero di colpo è stata attraversata come da una scossa che rimbalzando da persona a persona ci ha spinto in tutte le direzioni, come se il fiume trovando un ostacolo si fosse infranto, ma al posto di muoversi come un’unica onda si fosse diviso in mille rivoli caotici, in mulinelli impazziti. Tutti spingevano tutti, per muoversi più in fretta e spostarsi dalla traiettoria di quel muro di scudi che avanzava.
Io sono una ragazza sveglia e l’ho capito quasi subito che sarebbe stato un massacro, tutto il film della mia vita mi è passato davanti agli occhi in un secondo, ho girato i tacchi ed ho cercato di mettermi in salvo. Ma sono mingherlina e sono stata sbattuta qua e là dalle persone in fuga; ad un certo punto un ragazzone mi sperona e per non travolgermi mi prende tra le braccia in corsa e mi solleva trascinandomi nel suo slancio fino ad un muretto in cui mi abbandona per darsi alla fuga, ma gli devo la vita forse, perché appiattita lassù sono fuori dalla mischia e posso osservare tutta la scena. Cioè l’ho vista per un po’, fino a quando la nebbia delle lacrime non mi ha impedito di guardare oltre.
Quel giorno un ragazzo di quindici anni, incensurato e disarmato, sotto i miei occhi è stato bastonato a sangue da quattro celerini armati di manganelli, lo hanno assalito da ogni lato, non ha avuto scampo. Ho creduto che sarebbe morto, poi invece ho saputo che è sopravvissuto alle botte, arrestato in un lago di sangue, ha passato la notte in caserma senza cure mediche, ma il giorno dopo è stato rilasciato. Ancora piango quando penso a lui.
Mia madre, pasionaria sessantottina, mi raccontava sempre di un film, “Fragole e sangue”, sulla repressione nei campus americani durante gli anni del pacifismo finita in un bagno di sangue, sulle note di “Give Peace a chance” di John Lennon, inno di un’intera generazione.
La mia anima indomita e ribelle ha avuto il sopravvento da quel giorno; il senso di giustizia violata ha animato le mie giornate ed ho buttato all’aria la mia vita da allora: collettivo studentesco, proclami, cortei, occupazione, in un’escalation che mi portava a scelte sempre più estreme. Ecco come mi sono trovata là dopo un mese, nella mischia, insensibile ai richiami del buon senso ed animata da un sacro fuoco guerriero.
Poi mentre la nube dei lacrimogeni piombava su di noi, abbiamo cominciato a cantare e quando la voce si è spezzata rotta dal fumo, le nostre mani all’unisono hanno battuto il ritmo del nostro cuore, dei nostri sogni per il futuro. La realtà era inafferrabile, celata dai vapori mefitici, annebbiata dalle lacrime che non avrei voluto piangere, insensibile ai fischi, alle urla, agli scoppi. In quale mondo vorrei vivere? Forse non posso scegliere.
II° Punto:
"La prima cosa che farò domattina sarà di lavarmi la mano"
Una sera, in un piccolo paese di campagna, una ragazza di ventidue anni, resta da sola a casa perché i suoi genitori sono andati in città per assistere una parente che ha avuto un incidente grave.
Sicuramente torneranno a casa solo al sorgere del sole.
Fuori c’è un forte temporale e la giovane trascorre la serata guardando la televisione in compagnia del suo fidato cane Fido, che le lecca la mano ogni volta che lei la fa scivolare giù dal divano.
È un setter di media taglia di color marrone noce, con il pelo corto per tutto il corpo, all'infuori che, la coda. Ha un'età di quattro anni e mezzo, quindi un cane giovane perché calcolando che un anno è pari a sette per il cane, Fido ha solo trentadue anni all'incirca.
Una serata noiosa anche in televisione. Anche se la ragazza passa ore digitando il telecomando con lo zapping, non riesce a trovare un programma di suo gradimento.
Al momento di prepararsi per andare a letto, la ragazza si accinge a chiudere tutte le finestre, ma una di esse è difettosa e resta socchiusa. Si ferma in cucina e si scalda una tazza di tè, scegliendo il gusto ai frutti di bosco. Una confezione nuova comprata in erboristeria a tre euro e settantacinque centesimi.
La fanciulla sale pian piano di sopra nella sua camera da letto, si infila il pigiama rosa con fiori bianchi alla svelta e si butta sotto le trapunte. In quelle ore notturne strane e tetre, viene incoraggiata dalla presenza dell’animale.
Il sonno tarda però a venire e così si intraprende a ricercare un punto strategico accomodante. Spaventata dalla solitudine e dalla tempesta che infuria sulla casa e l'intero paese, la ragazza allunga la mano nel buio e incontra il muso del cane che le dà una leccata forte e ruvida con la lingua.
Tranquillizzata e rendendosi conto di non essere da sola, finalmente comincia a sentire arrivare il primo sonno. Chiude gli occhi e precipita preda dei sogni.
Tuttavia, nel corso della notte, per due volte dei tuoni forti e rimbombanti fanno svegliare la giovane di soprassalto. Impaurita dall’isolamento, di nuovo cerca la leccata confortante del cane, che non tarda ad arrivare.
La prima cosa che farò domattina sarà di lavarmi la mano
Il resto della notte trascorre tranquillamente e i sogni danzano leggeri nelle mente della giovane.
L’indomani il chiarore del mattino comincia a filtrare dalla tapparella. La ragazza si rigira più volte e per ben mezzora rimane nel letto. Si alza e ancora intontita sente qualcosa di viscido sul tappeto. Per verificare di cosa si tratti, visto che la sera prima aveva lasciato le ciabatte vicino al divano, si avvicina alla finestra, alza le tapparelle e lascia che la luce del giorno entri nella stanza. Apre la finestra con l'intento di respirare aria fresca della mattina e si stiracchia sbadigliando.
Si volta per cercare il suo cane e nota una scritta rossastra sul muro bianco. Poi vede il suo animale a terra, in una pozza di sangue. Comincia a singhiozzare e infine mette a fuoco la scritta sul muro: “Anche un uomo nel buio può leccare una mano”.
II° Punto:
"La mamma lo dice sempre"
Era una sera invernale di dicembre e una signora di mezza età stava caricando la spesa sulla sua Diane 2CV, nel parcheggio del supermercato.
All’improvviso un’anziana signora, tutta imbacuccata, le si avvicinò e le raccontò una triste storia: "Mi hanno rubato la bicicletta e ora con cosa torno a casa?"
La donna più giovane si impietosì e decise di dare un breve passaggio alla vecchietta dicendo: "Non si preoccupi, la accompagnerò fino a casa, ma dove abita?"
"Abito in Via dei Caduti, affianco al Teatro comunale"
"Finisco di sistemare le borse nel baule e sul sedile posteriore e poi la accompagno.
Si sieda pure intanto, abita poco distante da casa mia"
Cortesemente aprì la portiera e indicò il sedile anteriore del mezzo.
Accesa l'auto si scusò per la vecchiaia del mezzo, ma ribadì che era sempre un mezzo che con la benzina, viaggiava senza mai lasciarla a piedi.
Durante il primo chilometro, la giovane fu spinta dalla curiosità, e cominciò a osservare l’anziana, che strinse convulsamente tra le braccia una borsa della spesa. Mentre stava scrutando e ragionando, la donna alla guida si accorse di un particolare che le mise inquietudine e la insospettì.
Adagiandosi, la lunga gonna della vecchietta si era un po' sollevata e mostrava parte della gamba. Si intravedevano i collant dove facevano capolino una fitta peluria.
La guidatrice osservò meglio e notò che l’anziana era ancora tutta imbacuccata, nonostante nell’abitacolo si sia creato un bel tepore e lei stessa si era sfilata la sciarpa per il caldo.
Prendendo coraggio, la donna annunciò che c'era qualcosa che non andava a una ruota posteriore.
"Mi sa che ho bucato la gomma dalla sua parte"
Accostò e chiese furbamente all’anziana di controllare se la ruota si era forata. La vecchietta posò la borsa, e aprendo la portiera scende dall'auto.
La donna non ci pensò due volte e ripartì sgommando, impaurita dall’inquietante incontro.
Una volta a casa, raccontò tutto al marito.
"Un uomo? Ma come ti è venuto in mente, stai scherzando?" la rimproverò lui sbuffando.
"Ti dico che gli ho guardato le gambe, e poi nei suoi lineamenti c’era qualcosa di strano, per quel poco che si vedeva chiaramente" si difese lei prontamente.
Nel frattempo l’uomo aprì la sportina che la stessa anziana aveva lasciato in macchina: sperava di trovare i documenti e di poter restituire la borsa alla legittima proprietaria. Magari questo, insieme alle scuse delle moglie presa dalla paura.
Mentre la consorte cercò di farfugliare ancora spiegazioni per il suo comportamento, l’uomo sbiancò all'improvviso e le mostrò attonito il contenuto della sportina:
"Guarda qua cosa c'è dentro"
Vi era una piccola accetta pronta per squartare le automobiliste poco prudenti nel dare passaggi.
Il marito spiegò che aveva letto su un giornale di una leggenda metropolitana simile alla sua. Col pensiero andò a ritroso di qualche secolo, e narrò storie molto simili di quella appena avvenuta.
"Sai cara, al posto delle moderne automobili, c'erano calessi e diligenze nonché un uomo a cavallo disposto a dare un passaggio a una vedova affranta. La quale, una volta che il cavaliere la fece scendere con la scusa di farsi raccogliere il cappello, gli urlò dietro di buttarle la borsa. Forse perché era piena dei soldi che, con il suo travestimento, l’uomo era riuscito a rubare agli ignari popolani"
"La mamma lo dice sempre: meglio non caricare gli sconosciuti!"
II° Punto:
SA BIDDA DE BELLU PRÈSSIU
"Il paese di Bella Pesca - La rapina"
Gigi Cozzina, Salvatore Mitraglia e Agamennone il Profeta, quel dì di luglio del millenovecentonovantanove, non si videro in paese. Non che la cosa poté avere una qualche importanza, ma il Tromba, gestore del piccolo Bar Pizzeria “La Veloce”, nella piazza principale del paese, iniziò a preoccuparsi, vista la loro insolita assenza dal tavolo quattro, sotto l’ulivo centenario. Verso sera, per giunta, un chiacchiericcio incontrollato sparso da comare Linetta, detta anche “su bandu”, li indicava come vittime di un terribile incidente, o forse, ancor peggio, in fuga, dati alla macchia per aver rapinato Giuseppe Pompa, il gestore della locale stazione di benzina, ritrovato dai carabinieri privo di sensi, denudato e con la scritta “culatone” marchiata sul sedere con rossetto modello “bocca di fuoco”. Immaginarli capaci di un simile gesto, pensò il Tromba, poteva denotare solo una superficiale conoscenza di quegli irrimediabili spostati: Cozzina aveva un’intelligenza paragonabile a quella di una gallina ipnotizzata. Ogni volta che doveva rispondere a una qualche domanda il suo cervello divagava in modo incomprensibile e il suo sguardo poteva perdersi nell’assoluto per ore; Mitraglia soffriva di un difetto fisico che lo rendeva incapace di formulare, a tempo debito, qualunque frase di senso compiuto: balbettava che faceva prima a spiegarsi a gesti; il Profeta, il più sano dei tre (si fa per dire) era costantemente posseduto da visioni mistiche: da tempo predicava la fine del mondo e inscenava paternali dispensando morte, fuoco e fiamme dell’inferno a tutti i suoi concittadini. Era anche l’autista del gruppetto. La sua moto-carrozzella “Ape Sport”, dipinta a pennello di un lucido nero morte con la scritta “W LA MADONNA”, era ben riconoscibile. Cozzina, Mitraglia e il Profeta, però, non erano stati sempre così, e il Tromba se li ricordava bene, anche perché sarebbe potuto capitare anche a lui, se trent’anni prima fosse andato con loro a cercar funghi. Questo era anche uno dei motivi perché era l’unico in paese ad aver compassione di quei tre. Anche se del fatto e del mistero mai gli confessarono qualcosa!
Bellu Prèssiu, in Sardegna, non è che fosse un granché come paese, 250 anime scarse, in pratica tutti parenti e solo quattro cognomi: Pirletta, Sollai, Puliga, più quello dei proprietari dell’unica attività economica ragguardevole: la fabbrica di fuochi d’artificio della famiglia Bottu! Appunto, che già dal nome poteva far pensare a qualche problema di sicurezza, anche se mai successe qualcosa a memoria d’uomo, che si ricordi! Ma non divaghiamo.
Quel giorno, come trent’anni prima, alla stessa ora di quel cinque luglio, precisamente alle ventidue e quindici minuti, come il Tromba chiuse il bar e abbassò la saracinesca, sul paese iniziò a calare una nebbia così fitta, ma così fitta, che le parole rimbombavano come respinte da muri di gomma e, per guardarsi i piedi, ci si doveva genuflettere a centottanta gradi. Il Tromba pensò subito al tempo in cui i suoi tre amici si persero nelle montagne e a quando li ritrovarono, una settimana dopo, nudi e abbracciati al centro della piazza, in una notte come quella. Qualcuno fece circolare la voce, non vi erano dubbi su chi fosse, che avevano fumato qualche fungo dagli effetti allucinogeni sconosciuti, ma fatto sta che da quel giorno Gigi Pirletta, ex muratore del paese, Salvatore Sollai, ex medico, e Agamennone Puliga, ex sindaco, non erano più quelli di prima. Le rispettive famiglie, visto il loro stato, li fecero internare nell’ospedale psichiatrico di “Milano”, dicevano, ma non si è mai capito se “Milano” era il nome dell’ospedale o del posto, perché quando il Tromba raccontò della visita che fece loro qualche mese dopo, descrisse un numero considerevole di matti che correvano a testa bassa e parlavano in modo strano! Infatti, divenne d’uso comune la frase: «La che ti mando a Milano!» non c’era offesa più grave. Quei tre erano ritornati in paese da pochi anni, dimessi per senilità irreversibile, avevano sessantacinque anni ciascuno, la stessa età del Tromba, loro amico d’infanzia e cugino del Mitraglia.
La nebbia, cosa rara per Bellu Prèssiu, e ancor di più a luglio, avvolgeva qualunque cosa rendendo sinistro quel piccolo mondo e soprattutto la piazza che il Tromba doveva attraversare. Sentì un rumore provenire da dietro il grosso ulivo e si fermò.
«Tromba!» tuonò una voce e poi concluse: «Pentito ti sei?».
«Ehi là, chi va là. Chi sei?» rispose timoroso.
«Già lo sai chi sono, ma senza fare il loffio, rispondi alla domanda: pentito, ti sei?»
Dopo aver sentito la parola “loffio” non ebbe dubbi. Era la voce di Agamennone. «Uscitevene di lì che vi stanno cercando» ordinò rasserenato, ma in tono severo. Un’altra voce lo interruppe.
«Ri ri ri ri… rispo rispo… rispon… di di di… a la la alla do do do mamam man d d dda!»
«Mitraglia escitene anche tu!» suggerì tranquillizzandosi, riconoscendo anche la seconda voce.
«Per Dio! Guido Felice Pirletta, detto il Tromba, rispondici a noi: pentito ti sei?» lo esortò ancora Agamennone, imperioso.
«Ma di cosa mi dovrei pentire?»
«Del fatto che non ci sei venuto con noi a cercar funghi trent’anni fa.»
«Ah, di questo mi dovrei pentire? E va bè, mi pento.»
«Bravo, inginocchiati e prega con noi…»
«Ma finitela con questa storia» sbottò, «adesso chiamo il maresciallo!»
Udite quelle parole, guizzarono come pesci da dietro il nascondiglio e si precipitarono davanti a lui. «Dal maresciallo no, ci uccide!» lo supplicò il Profeta. Mitraglia confermò richiamando il segno del taglio della gola, mentre Cozzina, niente, non faceva niente, rimaneva a fissarlo con uno sguardo simile a quello di quando ti han detto che ti è rimasta da vivere una settimana e per giunta sei stitico da un mese e per di più ti stai cagando addosso!
«E su Dimoniu!» esclamò il Tromba.
«Se se se gu gu guici!» gli rispose Mitraglia prontamente.
Quatti quatti, avvolti da quella plumbea nebbia, uscirono dal paese e iniziarono a percorrere un sentiero impervio. Cozzina, indossando un casco da minatore con lampada annessa, indicava il percorso.
«Ma dove stiamo andando?» domandò il Tromba con il fiatone.
«A ddd ade de de adesso lo lo lo vev ve ve drai!» gli rispose Mitraglia posto alle sue spalle.
«Diamoci una mossa che domani ho le prove.» «Zitto!» tuonò Agamennone, «siamo arrivati. E che tu suoni nella banda, a noi non ci d’importara mancu una pimpirida de cosa!»
In mezzo agli alberi, seminascosta da alcune frasche, la moto-carrozzella apparve improvvisa. Ogni tanto un mugugno proveniva dal cassone posteriore. Il Tromba, perplesso, osservò quei tre. S’infuse coraggio e si sporse a osservare. Un giovane uomo era riverso, legato e imbavagliato con un taglio profondo sulla testa, irriconoscibile per il copioso sangue che gli ricopriva il volto.
«Chi è costui? Cos’avete combinato?»
«No no no sia sia mo mo mo sta sta…»
«Non siamo stati noi» concluse Agamennone spostando Mitraglia di lato.
«E come c’è finito dentro il cassone?»
Il Profeta tirò fuori dalla tasca la sua riserva d’Aguardiente, sorseggiò, e in tono deciso iniziò a raccontare: «Allora, dunque, noi, che il buon Dio lo sa che siamo bravi cristiani, stavamo andando fuori paese, come siamo arrivati al distributore ho chiamato il Pompa, ma non veniva, allora abbiamo fatto il pieno e ce ne siamo andati…»
«Sicuro?» lo interruppe il Tromba, attento a ogni parola e smorfia carpita dal suo viso.
«Eia, scappati siamo!» rispose sicuro e continuò: «Allora, ci davamo gas a tutta birra scendendo per la strada. Prima curva niente, seconda curva niente, terza curva… là chi ci ritroviamo davanti? Il figlio del Maresciallo, correndo in motorino, anche lui scappando! Boom. Preso in pieno… streccau!»
«In cu cu cu in incu…»
«In cunetta! Lascia parlare a me» disse seccato ancora rivolto a Mitraglia. «L’abbiamo scaraventato in cunetta, intorno a lui solo soldi, sanguinava, sembrava morto e ce l’abbiamo caricato sopra l’Ape. Poi svegliandosi ha detto “Sono miei i soldi, sono miei, me li ha dati il Pompa!”, e poi niente, è svenuto. Adesso è qui. È rinvenuto e voleva scappare, che se no il padre l’ammazza. Così ha detto e così riferisco.»
Il Tromba si mise le mani tra i capelli, sospirò e si accese una sigaretta. Il caso non era di facile soluzione, anche perché Giannetto, noto per le sue tendenze, non avrebbe mai confessato. E il Pompa, mai e poi mai avrebbe ammesso di aver pagato Giannetto per fare quelle porcherie. Perché di questo lui ne era certo.
«Ho un piano!» esordì poco dopo.
Mise al corrente i tre sul da farsi e partirono. Davanti, in cabina, sedevano il Profeta e Mitraglia, nel cassone, Cozzina, il Tromba e Giannetto, che confessò a suon di sberle, perché Cozzina era scemo sì, ma a dare le botte era il primo della classe. Il tromba ci aveva preso in pieno: il Pompa, dopo avergli dato i soldi, e fatto scrivere sulle sue chiappe una frase ricordo!, cercò di raggiungerlo per dargli un bacio d’addio ma, con i pantaloni abbassati sino alle caviglie, inciampò, ruzzolò per terra e sbatté la testa.
Erano le tre di notte quando giunsero all’ingresso del paese. La nebbia era ancora più fitta, e l’ululato del cane di comare Linetta, non meno accorto nel farsi i fatti suoi, creava ai tre una certa apprensione. Cozzina caricò Giannetto sulle spalle e tutti e quattro si diressero al centro della piazza.
Quattro alberi di pesche circondavano il monumento dei caduti. Perché Bellu Prèssiu, avesse un simile “altare della patria” non si sapeva: mai nessuno andò in guerra e vi perì, era dal 1915 che si erano dati tutti per invalidi civili. In ogni modo, gli alberi delle pesche “magiche” erano circondati da un’alta inferriata con un cancello. E proprio su questo ci appiccarono Giannetto, legato e imbavagliato, quasi come uno dei due ladroni di Gesù Cristo.
«Qu Qu Qu e e sto lo lo lo fa fa fa cccc cio i i io!» disse Mitraglia: gli abbassò i pantaloni e sulle chiappe gli scrisse, con il rossetto recuperato frugando nelle sue tasche, “Pure io!”. Il riferimento al termine culattone sembrò ovvio a tutti, tranne forse al Cozzina, che rimase dieci minuti a fissare quel sedere: che non ne avesse mai visto uno?
Ciò che accadde il giorno seguente lo scrissero anche su “L’unione Sarda”, tutta colpa di Linetta che telefonò alla cugina di Cagliari, che di razza doveva avere lo stesso gene suo: “De su troddiu”. Il povero Giannetto rimase in quella posizione sino alle due del dopo pranzo, il sole picchiava che i raggi erano bastonate in capoccia. La gente passava e lo sculacciava, diceva che portava fortuna, e la cosa era possibile visto che stava appeso nell’inferriata del “magico recinto dei peschi”. Lo raccolsero che si lamentava e delirava. Il padre, Il maresciallo Ferdinando Cappuzzo, fu trasferito per incompatibilità ambientale nella serata dello stesso giorno. Tornò nella sua bella Napoli, ma senza il figlio. Durante il processo svoltosi a porte chiuse, al Pompa, il giudice di Santa Giusta diede tre mesi con la condizionale per aver simulato la rapina, mentre Giannetto se la cavò “assolto per non aver commesso il fatto”, e non confessò mai chi l’avesse sistemato in quel modo sopra il cancello, disse di non ricordare, il che pareva alquanto inverosimile.
Per via delle chiappe di Giannetto il paese acquistò una certa fama! Tutti ora conoscevano Bellu Prèssiu, prima non era segnato neanche nelle mappe stradali, e gli affari iniziarono ad andar bene per tutti!
Del fatto, vi ho raccontato ogni cosa, anche se, non me ne fate una colpa, ciò che accadde trent’anni prima al Cozzina, al Mitraglia e ad Agamennone, forse lo sa solo il Tromba, così immagino. Lui, a quel tempo, mai mi confidò qualcosa. E delle “magiche pesche”? Di questo mistero seppi più avanti, anche se promisi di mantenere il segreto!
Ora spengo la luce e vado a nanna, basta scrivere, domani è martedì e bisogna lavorare. Mi presento, sono il Conte di Buoncammino, ma questo è solo il mio soprannome, per il resto faccio il barbiere e ho la bottega di fianco al bar pizzeria “la Veloce” di Guido Felice.
Continua…