
Ieri su Repubblica, a firma di Jaime D’Alessandro, ho letto un bell’articolo (purtroppo non disponibile on line), che racconta la storia di Gordon Bell, ricercatore della Micrososft che ha pubblicato un libro “Total recall, how the e-memory revolution will change everything” sul progetto MyLife-Bits. Bell ha deciso, nell’ambito di un esperimento partito nel 1998, di registrare su supporto digitale tutto ciò che gli succede: telefonate, spostamenti, immagini. Se all’inizio ha dovuto selezionare i ricordi meritevoli di archiviazione, oggi, con il progresso dei programmi di database, la maggior parte delle sue azioni viene registrata in automatico.
Oramai, però, non serve essere un programmatore della Microsoft perché ciò accada: è quanto avviene a molti di noi. Io, che ho sempre avuto la mania del ricordo, ho conservato i diari dell’infanzia, poi le agende, i foglietti, le lettere degli amici. Molte cose sono ancora da qualche parte negli scatoloni su in solaio, ma molte altre sono andate perse negli innumerevoli traslochi, oppure sono stata io stessa a eliminarle, perché semplicemente non volevo più “ricordarle”. Ma da quando utilizzo agende elettroniche, smart phones, e-mail, social networks, iPhoto, iTunes eccetera mi sorprendo sempre più spesso della precisione con cui riesco a ricostruire gli avvenimenti della mia vita. Se al contenuto di questi programmi e supporti sommiamo tutto ciò che scrivo, per diletto e per lavoro, non è poi difficile, per me (o forse anche per chi mi conosce bene), risalire addirittura alle emozioni provate in determinati momenti.
L’articolo di D’Alessandro si concentra sugli aspetti tecnici del fenomeno: la maggior capienza degli hard disk, l’aumentata compatibilità tra un programma e l’altro, necessaria al trasferimento dei dati man mano che si cambiano i computer.
C’è un fatto, però: quella delle mie figlie sarà probabilmente la prima generazione che avrà a disposizione una memoria puntuale e oggettiva della propria vita, una memoria che sarà situata al di fuori del loro cervello pur essendo interrogabile, incrociabile, confrontabile. Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, intervistato in chiusura dell’articolo, afferma :”Essere i propri pensieri e la propria storia è un’ipotesi affascinante”. Già, perché noi siamo convinti di “essere la nostra storia”, ma le neuroscienze ci dicono che non è così, che i ricordi vengono rimaneggiati ogni volta che li rievochiamo, che costruiamo nuove sinapsi e dotiamo il passato di nuovi significati alla luce di ciò che è il nostro presente.
È sempre stato così, nella storia dell’uomo, perché anche i testi scritti (unico possibile supporto insieme alla fotografia fino a non molto tempo fa) lasciano spazio all’immaginazione, evocano solo parzialmente l’obiettività di un accadimento. Il digitale, però, ci mostra tutte le versioni del nostro ricordo in contemporanea: la foto insieme all’annotazione sull’agenda (con il luogo e la lista dei presenti) insieme alla schermata del lettore mp3 che segnala il brano che abbiamo ascoltato e scaricato mentre quella stessa foto veniva scattata.
È lo stesso Pietrolli Charmet ha usare il termine “protesi tecnologiche” per definire tutte queste “appendici” della nostra memoria. Si discute tanto della “mente espansa” come di un’ipotesi futura, da realizzarsi quando il supporto biologico (il neurone) imparerà a dialogare col supporto digitale (il silicio), ma la mente espansa è già qui: non ho bisogno di un jack da inserire nel cranio, come in Nirvana o Johnny Mnemonic, per scaricare i miei ricordi nel computer: lo faccio quotidianamente, e con il wireless.
Avere a disposizione una memoria esatta del nostro vissuto è un bene? Niente più rimozioni, dice lo psicoanalista, e quindi, teoricamente, niente conflitti. Ma anche l’impossibilità, per l’incoscio (se vogliamo restare nell’ambito dell’interpretazione psicodinamica) di agire sul nostro vissuto: niente mediazioni, filtri. Il ricordo è qui, è presente e passato nello stesso tempo. Allettante e inquietante.
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