Mi chiamo Massamba Kalam e suono la batteria, esattamente un solo tamburo, e sono un terrorista! Scherzo. Insomma…
Ho 25 anni. Mio padre è del Senegal: questa deve essere una certezza anche se sin da piccolo mi è stato detto che sono stato adottato. Ora ho dei seri dubbi. Lui, mio padre, era da un bel pezzo che non lo vedevamo. Erano tre anni che mancava da casa. Mia madre diceva che non sarebbe più tornato perché aveva preso altre due mogli. Le ho chiesto come si sentiva ad essere una delle tre, ma lei non mi ha mai risposto!
Lui vive a Touba in Senegal, sua città natale, e anche li ha aperto un negozio di scarpe. Mi scrisse che gli affari andavano bene e mi invitava a raggiungerlo. Ma non si poteva fare, è vietato da sempre!
Con la mamma facevano uno strano traffico. Nel negozio qui a Firenze, in via Calzaioli, escogitarono uno strano sistema: lei faceva lo sconto del 10% a chi portava le scarpe vecchie per acquistarne delle nuove. A fine mese gli spediva una vagonata di scarpe! Ma quello che non riuscivo a capire è come mai mio padre, il mese successivo, ci rimandava tutto indietro. Quasi tutto. Le scarpe c’erano, ma mancano i lacci!
Una mattina arrivarono i carabinieri in negozio. Perquisirono tutto e ci portarono in caserma. Io non ero mai stato in prigione. La prigione è un posto dove ti senti solo anche se c’è tanta gente.
Mi interrogarono per ore e mi riaccompagnarono in cella verso le cinque del mattino. Ero gonfio che non riuscivo a inghiottire la saliva. Però rimasi zitto. Non ho aperto bocca. Non avrei mai potuto farlo. Sono sordomuto! Il tipo che mi faceva le domande iniziava guardandomi in faccia e poi si voltava. Non riuscivo minimamente a leggergli le labbra. Capivo che urlava perché diventava paonazzo e si sbracciava come se gli avessero rubato la merenda o peggio, fottuto la moglie. Quando gli mostrai il dito medio provai un forte dolore in faccia. Svenni. Ricordavo solo la fotografia che mi aveva mostrato poco prima: delle scarpe allineate su un bancone tutte senza lacci. I lacci…
Il giorno dopo mi fece visita la mia nonna in infermeria. Aveva con se i cantuccini, sa che ne vado matto, anche se non sono riuscito a mangiarne uno. Mi parlava a gesti e piangeva. Non capivo perché piangeva. Non l’avevo mai vista piangere.
La sera ho parlato per la prima volta con il mio avocato. Mi ha spiegato un po’ la situazione. Tutta colpa di mio padre! Avessi saputo il perché delle scarpe senza lacci avrei rovinato tutto. Ho spiegato all’avocato che potevano chiederlo a mia madre, che sicuramente lei conosceva il motivo, ma non c’è stato niente da fare. Erano convinti che fossi io l’artefice del contrabbando di suole usurate. Questo è ancora oggi un reato molto grave nel mio paese, ma non nel Senegal, in Italia. Sembrerebbe che importare scarpe senza lacci costituisca violazione e frode fiscale nel commercio con il terzo mondo. Terzo mondo, quale? Chiesi. Il nostro! Mi ha risposto l’avvocato.
Mi hanno scarcerato 2 settimane dopo e insieme a mia nonna e mia madre ci hanno sistemato con forza dentro un volo merci per il Senegal. Non eravamo graditi. Dei sobillatori e ingrati, dissero. Mia madre era felicissima e anche mia nonna. Io non capivo. Solo quando siamo scesi dall’aereo e siamo usciti dall’aeroporto compresi tutto. Non avevo mai visto una città simile. C’erano le macchine! Moltissime e modernissime, palazzi altissimi e la gente era vestita benissimo… e non puzzava! I negozi erano ricchi, le insegne immense e piene di luci. Mi batteva forte il cuore. Mio padre ci aspettava su una macchina che non avevo mai visto. Mi ha detto che era una “Mercedes”! Con la mamma si sono abbracciati che non si staccavano più e piangevano. Certo che Touba non è Firenze: lì le persone sono tutte povere, anche noi eravamo poveri, le macchine le hanno solo quelli del governo. Tutti gli altri vanno in bicicletta. Dicevano che era perché dovevamo essere tutti ecologisti per un mondo migliore, ma la verità, e io l’ho saputa solo adesso, è che non c’era più benzina. Mi ricordo le file per comprare il pane dal distributore automatico… che amari ricordi!
Mia madre dice che adesso è felice perché siamo riusciti a scappare dalla povertà. Prima l’Italia, ai tempi dei suoi nonni, era un paese bellissimo.
Un fratello di papà, zio Omar, ci ha spedito dalla Germania un cartone pieno di scarpe. Io stesso ho tolto tutti i lacci e rispedito il pacco. Però ancora non hanno arrestato nessuno. Ho saputo che i tedeschi sono più furbi degli italiani e che alla cazzata dei lacci senza scarpe non ci cascano. Io continuo a non capire, però mio padre, mia madre e mia nonna, ridono spesso per questa cosa.
Domani è il 27 Aprile 2093 e compio 26 anni. Sono contento di stare a Touba, rimpiango solo gli amici del gruppo Rock. Battevo il tamburo quando sentivo la musica vibrare forte dentro di me.
Ho spedito una scarpa senza lacci anche a loro.
Non credo basterà e non credo capiranno!
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TITOLO: Cartoline dal Senegal (A)
Ma quando si deciderà questa signora tra la scarpa rossa con tacco 12 o la scarpa décolletée, rossa pure questa?
Ora della scelta, naturalmente, 19h25, e io voglio prepararmi bene per la cena di questa sera, il primo appuntamento è il più bello, il più delicato, il più brutto.
Già la scelta del ristorante mi ha tormentato per tre giorni: il classico fiorentino, bistecca e chianti, per far vedere il mio profondo essere di qua o, brutale e evidente, ristorante africano e via con le gallettes de manioc, le poulet yassa...per manifestarle il mio orgoglio nero, anche se veramente, di cucina africana, non me ne intendo proprio.
Deciditi signora, la interpello tra me e me!
A volte, suggerire un parere personale funziona. In un senso come nell'altro, o decide di non prendere niente o mi ascolta, non mi importa di perdere una vendita, a quest'ora, tento il tutto per il tutto:
La signora alza gli occhi divertita verso di me:
Lo so, si stupiscono ancora, un senagelese alto quasi due metri e fiorentino, un bel contrasto, lo so.
Ma io ce l'ho nel sangue il mio essere toscano, fluisce nelle mie vene a forza di ninne nanne e cantucci della nonna che mi hanno speziato il sangue, a forza di scuola di quartiere e partite di calcio. A forza di innamorarmi di ragazze testarde, arroganti, sarcastiche, irresistibili!
Questa sera la vedo, questa mia tosta ragazza che ha accettato di venire a cena soltanto dopo tre mesi di assillo.
Ci siamo incontrati ad un concerto rock, lì io stono meno, nessuno si stupisce di vedermi, rientra nelle certezze: è nero, senso del ritmo e generalità assimilate.
Ma se ho dovuto studiare sodo per imparare, non interessa - quello che mi si chiede piuttosto sarà : Davvero hai un negozio di scarpe? Come mai?
Io non la racconto la mia storia, la potete indovinare, non sono certo il primo bambino adottato, e, dovessi sposarmi, lo vorrei anch'io un figlio adottivo, così so a chi regalare il negozio...
Lei li vorrà dei figli?
Forse corro troppo?
Questa sera, le dico, certo glielo dico:
vuoi venirmi a sentire il 27 ottobre, faccio un concerto con il mio gruppo rock? Mi farebbe tanto piacere.
Maledizione, potevo stare zitto! Taglio corto, chi se ne frega:
Devo averla convinta, la signora, perché le prende queste scarpe, o le ho fatto simpatia , come un esotico familiare, un fiore trapiantato, un prodotto culturale originale, che ne so, l'importante è che sono le 7e 40, che vado di corsa a casa, poi al ristorante, quello classico, tradizionale doc, e mangio con la mia ragazza una bistecca, bevo chianti, progettiamo un viaggio, magari in Africa, direzione Sénégal, ad imparare le ricette, poi vendo il negozio di scarpe ed apro un ristorante...oppure no, il contrario: andiamo in Africa, scopriamo che ci piace vivere proprio lì, apriamo un bel ristorante di cucina italiana e mandiamo le cartoline ai miei genitori: quando venite a trovarci? Vi aspettiamo! E portate i cantucci della nonna, che ci mancano tanto...
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L’APPUNTAMENTO ( traccia B)
Sono in volo da ore, cioè questa è l’impressione, in realtà sono solo cinquanta minuti: stiamo sorvolando i bianchi massicci alpini del versante svizzero. Ci hanno pure offerto gli auricolari e sul bracciolo alla mia sinistra ho digitato un po’ di stazioni finché ne ho trovato una che trasmette romanze e arie d’opera. Chiudo gli occhi.
“E lucean le stelle ed olezzava la terra…. L’ora è fuggita…e muoio disperato” Bellissima nella versione di Placido Domingo
La mia vicina sta armeggiando con lo spinotto e mi chiede dove infilarlo, ho una rispostaccia pronta, ma mi trattengo e l’aiuto, però non posso scegliere per lei così le consiglio la stazione numero uno per poter seguire in lingua italiana il film che stanno trasmettendo sui monitor.
Io non posso, non riesco a vederlo.
“…lascia ch’io pianga mia cruda sorte…”
Non so perché sono qui, cioè lo so, ma non so perché ho preso questa decisione. In fondo sono quarantacinque anni che convivo con una tenda da sole addosso, non voluta, una grata di prigione costantemente cucita sugli occhi. Un bambino si agita poche file oltre la mia, speriamo non si metta a piangere, perché non gli fanno seguire il cartone animato? Forse è troppo piccolo.
“…Se Romeo t’uccise un figlio…” intonata da Vesselina Kasarova
Io non ho figli, ho però un gatto, un certosino di dieci anni, una magnifica, morbida, dolce gattona che è rimasta a casa con mio marito,
“Oh mio Fernando… “ nella versione cantata da Jadraka Jovanovic, la mia preferita in questa aria.
Anche lui insegna al conservatorio, mio marito intendo non il gatto, anche se Perla ha più orecchio e senso del ritmo (lo vedo dalla coda) di alcuni miei studenti, non so come affronteranno l’esame di solfeggio parlato “difficile” in chiave di violino. Comunque questa volta non è un mio problema, per tre mesi non li rivedrò. Fernando , mio marito, insegna pianoforte: è un uomo buono , divertente ed affidabile, con lui rido…ed è questo che mi ha fatto innamorare di lui oltre alla comune passione per la musica .
“Libiam ne’ lieti calici…che la bellezza infiora…. e il riso in questo in questo paradiso ne scopra il nuovo dì”
Stanno proponendo delle bevande: prenderei volentieri un caffè, ma sono già troppo in tensione, meglio un bicchiere d’acqua. A volte l’acqua lava via i pensieri non graditi, le ansie che attanagliano….Ma che cosa dico? Ci vorrebbe qualcosa di ben più forte, ma io non sono abituata e rischierei di presentarmi all’appuntamento con un gran mal di testa.
Domani ci sarà il terzo tentativo, poi se anche questa volta non ci saranno risultati, mi dovrò rassegnare a perdere la vista, perché la mia non è una normale miopia, eh no, troppo facile! È complicata da infezioni corneali varie, distacco retinico, mi manca il glaucoma e poi il mio quadro clinico è un esempio da manuale di tutte le complicanze possibili. Mi viene in mente una barzelletta:
“Qual è la differenza tra Dio e un chirurgo?... Dio sa di non essere un chirurgo!
Speriamo che il mio, di chirurgo, non abbia la sindrome divina….
Perché balliamo così? Mi è stato detto che non dovrei neppure starnutire!
“Signori è il comandante che vi parla, allacciate le cinture, posizionate le mascherine dell’ossigeno, che stanno uscendo dagli alloggiamenti sopra la vostra testa, sulla bocca e respirate normalmente…..Mayday…mayday” Respirare normalmente?
“Ave Maria di Schubert….” per fortuna nella versione di Placido Domingo e Nana Mouskouri!
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La donna dei gatti (B)
-Tesoro, passa da me alle 10:30. Prima sono in ufficio. Bacioni-
Leggo il messaggio mentre mangio una poco sana barretta di cioccolato stravaccato sulla mia brutta poltrona. Dovrei andare? Alle 10 inizia la finale di campionato, e il mio televisore nuovo non aspetta altro. E poi ho già detto a Marco e Nico che avrebbero potuto guardare la partita a casa mia, probabilmente avranno già preso pizze e birre. Ma lei non lo capirebbe…Però è da una settimana che non la vedo, non voglio deluderla. Bene, andrò a casa sua e casualmente accenderò la TV, e magari la convincerò a guardare insieme la partita. No, questo è surrealismo. Ma tentar non nuoce. Scendo rapidamente le scale bagnate col rischio di spezzarmi l'osso del collo e raggiungo la mia fedele Bravo. Fedele un corno, non c'è benzina. È già buio e fa freddo, e casa sua è dall'altra parte della città. Inoltre questi lampi non promettono affatto bene, e il mio ombrello è rotto. La tentazione di voltarmi e lasciarmi cadere di nuovo sulla poltrona è fortissima, ma l'immagine di lei che piange perché le ho dato buca, o più probabilmente, che mi augura patologie letali e sconosciute è ancora più vivida nella mia mente, così mi dirigo verso la vicina fermata dell'autobus. Ad aspettare con me solo un pakistano con grandi buste con ogni probabilità piene di bracciali e collane e orecchini e anelli di vera plastica. Perché non vende anche lui ombrelli come i suoi colleghi visto il tempo? L'autobus si ferma, saluto l'autista e pago il biglietto, mi mancano pochi centesimi, non vuole farmi salire. Sono sul punto di sferrargli un pugno e prendere il posto di guida quando il pakistano mi porge sorridendo i soldi necessari. Lo ringrazio, ma sarò costretto a comprare qualche bracciale domani. Uno potrei regalarlo a lei, ma col suo stipendio può permettersi ben altro genere di bracciali. Avanzo nell’autobus quasi deserto e mi accomodo più nervoso di prima su un sedile lercio di fronte a una donna che prima non avevo notato. È magra e sembra piuttosto alta, ha i capelli raccolti in una crocchia, sta cercando di decifrare un libro di musica con naso incollato alla pagina. Avrà meno di 50 anni ma per come è vestita sembra una nonnina. In effetti, sembra proprio mia nonna, solo che è meno curva. Ha un cattivo odore, vorrei cambiare posto ma lei potrebbe intuire il motivo, e non essendoci altra anima viva vicino a noi capirebbe di essere la causa del mio allontanamento. Potrei fingere di voler scambiare due chiacchiere col mio amico vucumprà, ma non ne ho alcuna voglia, così resto lì e sopporto il fetore. Pare impossibile che una donna di quell'età puzzi come un animale. Sono sempre più nervoso. Potrei essere a casa ad aspettare che arrivino i miei amici per oziare allegramente, e invece sono in autobus con un nero, una signora maleodorante, e senza un soldo. Noto che la signora porta con sé una cesta piena di cuscini. Roba da matti. Comprendo che non è lei ad emanare cattivo odore ma la cesta, su cui ora ho soffermato lo sguardo. Non ho mai dato segni di squilibrio mentale ma giurerei di aver visto sbucare una coda pelosa. La signora sicuramente ha visto i miei occhi strabuzzati e si affretta a spiegarmi. Sono i suoi gatti, dice, rimasti gravemente feriti a causa della caduta di alcune tegole dal tetto di casa sua e per questo ora si sta recando dal veterinario. Gatti. Non li ho mai potuti sopportare. ogni volta che andavo a casa di Carla quegli schifosi iniziavano a strisciarmi fra le gambe con le loro inquietanti vibrazioni. Ma quando quello più grosso mi ha anche fatto inciampare non ci ho visto più. L’ho chiuso in un sacco per la spazzatura e gettato in un cassonetto mentre lei si preparava. Alle sue domande sul gatto ho sempre risposto vagamente. Forse si è convinta che sia scappato o che sia stato preso da qualcuno durante uno dei suoi giretti del quartiere. La signora è inconsciamente sadica. Prende il cesto e me lo porge invitandomi a vedere quanto siano belli i suoi gatti, ma di fare attenzione perché stanno dormendo. Riluttante appoggio una mano sulla coperta che copre le bestie per scostarla, ma mentre compio quest'azione delicatissima l'autista frena di colpo. Il contenuto del cesto mi si rovescia addosso. Due gatti sanguinolenti e fetidi mi coprono la faccia. La mia camicia si tinge di macchie rosse. Approfittando dell'apertura del portello secondario scaglio via i due corpi mollicci e sudici. La donna vorrebbe urlare qualcosa ma la voce le si strozza in gola. Gli occhi si fermano, non respira più. La sua brutta testa di vecchina ricade pesantemente sul petto. Sono soddisfatto e tranquillo. Guardo a destra verso il posto del pakistano sorridendo serenamente. Guarda assorto la sua merce, sembra non aver notato nulla. Mi volto nuovamente verso la donna. Il suo posto è vuoto. Sul sedile peli di gatto. Mani fredde attorno al mio collo, ed è il buio.
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VITA DI BUCK - Il matrimonio di Emily (C)
Era impossibile farcela, quell'osso proprio non ne voleva sapere di tornare in superficie. Mi facevano male le mascelle a forza di tirare, ma dove si era impigliato?! “Buuuuuck...”, la voce di Mary cominciava ad essere stridula, ci stavo mettendo troppo tempo, sentivo l'ansia nella sua voce, come quando qualcosa nel programma di marcia andava storto e lei cominciava a perdere il controllo sugli eventi. “Buuuuuck, se non vieni subito in macchina ti lasciamo a casaaaaaa...”.
Fatto! Rotolando all'indietro mi rialzai col mio bell'osso tra i denti, mi sorridevano anche le orecchie, e galoppai verso la famiglia già sistemata in macchina in pompa magna, oggi matrimonio!
“Cagnaccio, ci vuoi far perdere l'entrata solenne della zia in chiesa”, Mary mi scrollava la testa con un grattino e mi spingeva dietro, tra le gambe dei ragazzi. Gira e rigira trovo il mio bel posto, osso e tutto me. E si parte. Sono sempre un po' caotiche le nostre partenze, tutta una corsa per preparare valigie, scatole, cibo (Mary non partirebbe mai per un viaggio senza un'adeguata scorta di cibo, a volte penso che lei creda che fuori dalla sua casa, il suo regno, si estenda un infinito deserto) ed io, che mi eccito sempre alla vista dei preparativi, corro dall'uno all'altro per controllare che tutto sia pronto, ecco un calzino lasciato indietro...ehi, ti sei dimenticato il billo, come pensi di addormentarti questa sera?! Se non ci fossi io, come farebbero in questa casa?
A parte il lancio del riso dove ho potuto abbaiare e saltare come un matto, mi sono annoiato a morte ad aspettare là fuori, i ritmi umani a volte mi sono un po' incomprensibili, ci sono posti dove non posso andare con la mia famiglia, come se ci fossero luoghi che non sono adatti per me, ma oggi è un giorno speciale: la zia Emily si sposa. Ed il banchetto valeva l'attesa, c'era un'infinità di gente, tutti a farmi complimenti per il mio fisico eccezionale (ma quanto sono vanitoso!), mi sono pavoneggiato al fianco di Mary e dei ragazzi fino allo sfinimento, ho dato sfoggio di tutte le mie migliori qualità, ho anche ballato con le zampe appoggiate sulle spalle di Robert, il cugino di Mary, che, dopo molte ore con le gambe sotto il tavolo, aveva bisogno di smaltire un po' di alcool; piazzato come un pascià vicino alla mia famiglia, ho mangiato per ore con Mary che, oltre al mio piatto sempre pieno, mi ha fatto assaggiare ogni tipo di cibo umano; c 'è stato un momento mentre ero lì con la pancia piena e rilassato tra le persone che amo, con intorno il movimento festante di tutte quelle persone venute da lontano per fare onore a Emily... (già Emily, che storia...sposata giovanissima, quarant'anni di matrimonio e poi rimasta sola si va ad innamorare di un giovanotto di trent'anni più giovane, ma la storia è che lui è innamorato ancora più di lei e vederli insieme è una di quelle cose che ti fa venire voglia di vivere), dicevo...che ho pensato che lì in quel momento sperimentavo il paradiso.
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UN LEONBERGER ADATTO ALLA FAMIGLIA (C)
La luce argentata di un pomeriggio di marzo, illuminava l’elegante casa in riva al lago Iseo.
Da una grande vetrata, si vedevano i vertici rigogliosi degli alberi del maestoso giardino, che spiccavano contro il cielo dove veleggiavano centinaia di cumuli.
I professori Molly e Sara sedevano al tavolo dialogando con entusiasmo.
Io accucciato sulla mia poltrona color frassino, mi leccavo i baffi al ricordo di quello che avevo gustato a mezzogiorno.
Sono un Leonberger, un cane di razza di grossa taglia e mi chiamo Barny. Raggiungo gli 80 centimetri al garrese e i 65 chili di peso. Ho il pelo lungo di colore giallo-rosso con la maschera nera. Anche se il bebè di casa, Tom di 4 anni, mi prende in giro per le mie orecchie cadenti, ho una forte ossatura.
Sono classificato tra i cani da guardia, e il mio temperamento è buono, equilibrato, mansueto, adatto alla vita in famiglia e con i bebè vado d'accordo. Accetto anche gli ospiti e più di fargli qualche giro attorno, non gli faccio nulla.
In silenzio pacifico, studiavo le espressioni dei due ospiti che si erano del tutto rilassati.
Alle diciotto, un’auto guidata dal maggiordomo Pier, era entrata nel giardino, fino a quel momento taciturno. Davanti al portone, di ritorno dall'asilo, era arrivato Buk con la sua mascotte, Tom.
Buk aveva appena compiuto gli anni, vissuti con umorismo e determinazione. Era stato un punto di riferimento importante per la famiglia che si era sempre aggrappata a lui.
A dire la verità, pure io, perché se non c'è lui che mi porta qualche osso, me la passo gran male.
Era arrivato il momento di saltare addosso a quel birbante di Tom. Non solo, dargli una bella leccata in faccia ma giocare pure a nascondino.
Ormai avevo ben capito dalle loro discussioni, che gli eleganti ospiti, aspettavano Buk per poter parlare di una palazzina dell'ottocento con affreschi.
I professori avevano atteso per circa due ore l'arrivo del mio padrone, perché volevano informazioni accurate.
Sara e Buk erano nati lo stesso anno, ben quarantadue anni fa. Erano stati compagni di classe alle elementari e alle superiori. Poi, lui si era trasferito a Pisa dove aveva frequentato l’università e dopo aver superato l’esame di stato, aveva incominciato a esercitare la professione di avvocato nella sua città natale.
Anche lei, dopo aver sposato Marco Dodi, era approdata a Pisa con il marito. Il loro rapporto di amicizia non si era mai interrotto, anzi, con il procedere degli anni si era fortificato.
L’etica professionale di Buk, consentiva di raccontare il valore di diverse opere d'arte, compresi gli affreschi.
Gli ospiti erano stati ricevuti nella sala. Si erano seduti sulle poltrone ai lati del camino. Buk gli aveva offerto caffè e cioccolatini fondenti.
Avevano parlato di banalità, poi, all’improvviso, Sara, con un gesto presumo abituale nei momenti d'ansia, aveva allontanato dal viso i capelli ramati in argento. Si era alzata e dandomi le spalle, si era chinata per allacciarsi una scarpa.
Mi avvicinai, e vedendo la sua tenerezza, gli tirai su il viso. Lei mi guardò con occhi di color miele millefiori e rise.
A quarantadue anni, Sara era ancora una bella donna e sembrava in perfetta forma fisica.
Di nuovo, aveva allontanato i capelli dal viso con un gesto veloce e aveva proseguito: «Tu Buk, sai il valore del patrimonio? Vorrei inserirlo nella mia collezione».
«Vi metterò in contatto con i proprietari, sia a te che a Molly», aveva ribadito Buk.
Quelle erano opere eseguite da pittori minori dal tardo seicento all'ottocento, che riproducevano banchetti e tavole imbandite.
Al solo pensiero, mi veniva la bava alla bocca dall'acquolina.
I singoli affreschi, dipinti con una tecnica abbastanza ingenua, non avevano un particolare valore, ma nell’insieme costituivano una rara e preziosa collezione sul tema del cibo, e questo mi faceva aver lo stesso gusto dei professori.
Sara era soddisfatta e dopo aver sorriso, si era infilata in bocca un cioccolatino, gustandolo con piacere. «Così va meglio», aveva detto.
Gli alberi oscillarono, scossi da un vento forte e improvviso che sospingeva nuvole d’inchiostro, oscurando il cielo.
La luce di un lampo rischiarò la sala e un tuono spaventoso lasciò tutti senza fiato.
Tom senza nemmeno attendere un istante, era abbracciato al mio collo.
Mi alzai su due zampe per controllare, ma subito, l'avvocato accese una lampada per illuminare la stanza. Una pioggia si gettò contro la vetrata mentre lampi e tuoni si verificavano sempre più frequenti.
Così com’era venuto all'improvviso, il temporale fuggì via e nel cielo nacque la luce del tramonto.
Accucciandomi, mi accorsi che Tom si era assopito.
Stando attento a dove mettevo le zampe, mi arrotolai sul bimbo, il mio cucciolo.
Con il muso appoggiato su Tom, mi accorsi che le due ospiti stavano salutando il mio valoroso padrone, ma ho sbadigliato così forte, che ora non ricordo più nulla.
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OSVALDO (traccia C).
Hanno appena tagliato l’erba. A me piace questo odore, lo aspiro a fondo, rumorosamente, ed è ancora più potente, forte e piacevole quando il prato è bagnato; come adesso, che è appena piovuto, uno scroscio fortissimo mi ha fatto rintanare nella cuccia. Ora è tornato il sereno, e sono ritto sulle zampe teso a prosciugare tutta l’aria circostante, l’aspiro con la lingua e le narici, mentre il mio pelo nero si impregna dell’umidità circostante.
Fuori dalla villa, davanti al cancello, è iniziata la parata serale dei cani del vicinato: Flippy, Dolly, Nerone, Pietro…
Venite, venite, eccovi qua, Grrrrrrr…Bauu!... Ma sì, fatevi sentire forte da quei cretini dei vostri padroni, fate finta di essere quello che non siete, cani da guardia, ridotti a vivere in quattro metri quadrati di terrazzo, chiusi nelle vostre mura domestiche, mezz’ora d’aria, se va bene. Pietro, molosso bastardo, prova ad avvicinarti, Pietro..
Ecco Giulia che rientra da scuola, apre il cancello con Marco, le corro incontro anche se so che dovrò fermarmi. Vorrei saltarle addosso e leccarle il muso, lei prova ad abbracciarmi, Marco glielo impedisce: “Giulia, no!” . Sono zuppo di pioggia, sporco di fango.
“Ma come sei ridotto, come facciamo? … Carla, Carla, ma hai visto come è conciato il cane? Che facciamo?”
Carla sbuca dall’interno, un tripudio di colori che mi entusiasma, insieme al suo profumo inebriante. Corro verso di lei, pronto a dimostrarle tutta la mia gioia nel vederla, ma un altro “NO!” , “Cuccia, Osvaldo!” mi costringe a fermarmi e ad acquattarmi per terra.
Carla e Marco iniziano a parlottare fitto. Giulia entra in casa e butta lo zaino per terra, dietro alla porta, poi esce fuori con un foglio di carta, che sventola sotto il naso dei genitori.
“Osvaldo viene con noi, è un cane da salvataggio in acqua, il Terranova. C’è scritto qua, papà l’ha stampato ieri da internet, quindi se cado nella piscina mi salva Osvaldo.”
“E’ troppo sporco, non possiamo, Giulia. Vieni a cambiarti, dobbiamo essere al matrimonio tra poco. Lo so, c’è la piscina nel ristorante, ma tu non devi caderci dentro, tutto qua.”
Giulia protesta, grida, implora, si dimena. Il mio muso gira verso ognuno di loro, provo a fare lo sguardo più languido e dolce, poi mi alzo e scodinzolo guardando ora lei ora lui, con quel fare speranzoso e rassicurante proprio del migliore amico dell’uomo, della donna e dei bimbi.
Li ho convinti. Lo so, lo sento. Lo sguardo di Carla verso Marco, le sue braccia abbandonate sui fianchi, mi fanno capire che ha desistito. Inizio a girare intorno a Marco, lui rotea con me e si trova davanti la piccola Giulia, ancora ferma in attesa della sentenza.
“Dai Giulia, vatti a vestire. Andiamo tutti. Osvaldo, muoviti, vieni con me!”.
Sono già in macchina quando arrivano Carla e Giulia. Mi piace quando sento il rumore d’accensione, mi piace quando vedo sfilare i palazzi e muoversi gli alberi, mentre sono accucciato all’interno dell’abitacolo. Mi piace quando faccio appannare i vetri, col mio alito.
Son dovuto restare un po’ in macchina, mentre loro andavano in un posto dove non potevo entrare, poi siamo ripartiti, ancora un po’ di movimento; infine, lo stop. Finalmente si apre lo sportello per farmi scendere.
Ancora erba, ancora odore di terra bagnata, la serata promette bene. Poi vedo lei, la piscina: la soluzione è a portata di zampa.
Amo l’acqua, amo anche essere elegante e far ben figurare i padroni nelle situazioni importanti; questo fango non mi si addice, il grande Osvaldo è pronto, fa un balzo e si tuffa, nel blu.
Se c’è stato un grido, non l’ho sentito. Se c’è stato un “NO!”, è arrivato troppo tardi.
Questo posto è meraviglioso, le mie zampe mulinano nell’elemento liquido, quando esco sono grondante quel tanto che garantirà l’apoteosi della felicità: lo sgrullare dell’acqua dal mio pelo.
Intorno, il vuoto. Dietro ad esso, un semicerchio di persone, chi ride, chi urla, chi fa di tutto per evitarmi.
Giulia, non vedo Giulia. Riprendo felice la mia escursione sul prato, curioso di tutto e di tutti.
Adoro le feste.
bello questo sondaggio.
RispondiEliminaLa più bella, ma?